11 febbraio 2009

FIRMATO L’ACCORDO CHE TENTA DI IMPORRE UN NUOVO E PEGGIORE MODELLO CONTRATTUALE

L’accordo quadro rappresenta un progetto autoritario e regressivo contro i diritti dei lavoratori e porta a compimento un percorso iniziato con la concertazione

Il Contratto collettivo nazionale viene rinnovato con scadenza triennale sia sulla parte economica che normativa, questo peggiorerà la situazione attuale, perché già con la scadenza biennale si verificavano in molte categorie ritardi enormi che oggi aumenteranno non essendo prevista alcuna penalizzazione delle aziende in caso di ritardi.

All’inflazione programmata, su cui calcolare gli aumenti contrattuali, si fa riferimento ad un indice IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito Europeo per l’Italia), se l’inflazione Europea è più bassa di quella Italiana, come di solito avviene, i salari Italiani perderanno ancora potere di acquisto. Inoltre l’inflazione così definita è, comunque, depurata dall’inflazione importata legata ai prodotti energetici, se si considera che gli incrementi inflazionistici verificatesi nel recente passato erano tutti legati al prezzo del petrolio e delle materie prime, si capisce a quale decurtazione sono condannati i salari con questo nuovo modello contrattuale.

Il nuovo modello, di fatto, prevede una forte riduzione del contratto nazionale ed uno spostamento del peso centrale della contrattazione di secondo livello, quello aziendale. Questo, sia per i motivi prima detti sia perché è prevista una forte decontribuzione e detassazione del livello aziendale, ma solo se il contratto aziendale rispetta i parametri di salario variabile legato alla produttività e/o ai bilanci aziendali. Quindi la speranza di difendere il salario è solo legata a quelle poche aziende che vanno bene, che possono pagare dei premi variabili facendo contratti interni, e solo fino a quando vanno bene, perchè appena c’è crisi, come in questo periodo , anche i salari di quelle aziende si azzerano. Inoltre, il contratto aziendale può peggiorare gli istituti economici e normativi previsti dal contratto nazionale.

Inoltre, con questo accordo, si mettono le basi per un ulteriore limitazione del diritto di sciopero, in particolare, per le aziende dei servizi pubblici locali e relativamente al secondo livello di contrattazione determinando l’insieme dei sindacati rappresentativi della maggioranza dei lavoratori che possono dichiarare sciopero e si impone il ricorso all’arbitrato.

Lo stesso richiamo a scrivere regole comuni per la rappresentanza sindacale entro tre mesi dalla sottoscrizione, assume, in questo quadro, il sapore di ulteriori strette antidemocratiche per escludere i lavoratori ed i sindacati di base, dalle decisioni.

La CUB ha contrastato la concertazione che, dal 1993, ha permesso che aumentassero i profitti e calassero verticalmente i salari ed il loro potere d’acquisto: da oggi sarà necessario impegnarsi ancor più per respingere questo accordo, fortemente voluto da Confindustria, di riforma del modello contrattuale, dando continuità alla mobilitazione e alla lotta che ci ha visti protagonisti nei mesi scorsi.

Oggi la CGIL, dopo avere condiviso per anni le politiche concertative che hanno portato a questo approdo, non ha firmato l’accordo e la FIOM e la F.P. CGIL hanno dichiarato lo sciopero del 13 febbraio, è questo un fatto positivo, ma oggi si deve dire con chiarezza che bisogna rompere definitivamente con queste politiche sindacali concertative e non accontentarsi di qualche aggiustamento parziale. Per questo la CUB non ha dichiarato sciopero il 13, lascia però la libera scelta ai propri iscritti sull’adesione allo sciopero, considerando, comunque, che una riuscita dello sciopero può aiutare la ripresa del conflitto che il sindacato di base unitariamente si è impegnato ad attuare per i prossimi mesi.